Beatrice Testini
V dan dell'Aikikai d'Italia
Ha studiato danza classica per circa vent'anni. Nel 1995 comincia la pratica dell'Aikidō e nel 2002 consegue il I Dan con il m° Hideki Hosokawa responsabile didattico dell'Aikikai d'Italia del centro-sud.
Ha conseguito il V Dan nel luglio 2018..
Pratica Shodō (la via della calligrafia) dal 2002 con il maestro Norio Nagayama: di questa disciplina è V Dan della Japan Educational Calligraphy di Tokyo.
Le sue opere sono state esposte in mostre collettive e personali in diverse città, fra le quali Tokyo, Venezia, Este, Padova e Forte dei Marmi.
Dal 1996 pratica lo stile della Montagna verde di Tai-chi-chuan appreso dal m° Xu Xin.
È architetto di giardini. Ha pubblicato un articolo sui giardini orientali nella rivista Aikidō (Associazione di Cultura Tradizionale Giapponese) ed altri per riviste e testi specializzati, fra i quali "Il giardino del sogno. Bomarzo in Cina: coincidenze, corrispondenze e analogie fra la Hypnerotomachia e lo Huong-luo mêng", in Il Regno di Giano, AaVv, edito da CasadeiLibri.È coautrice con Sachimine Masui del libro: San sen sou moku. Il giardino giapponese nella tradizione e nel mondo contemporaneo (CasadeiLibri, Padova 2007). È coautrice con Francesco Fonte Basso del libro "Le quattro libertà del giardino" edito da Maestri di giardino editore.
Nel 2007 nominata responsabile di dojo dal Maestro Hiroshi Tada IX Dan, Direttore Didattico dell'Aikikai d'Italia, allievo diretto del Maestro Morihei Ueshiba, Fondatore dell'Aikidō.
"L'Aikidō non è semplicemente un modo per capire come effettuare delle tecniche, ma è piuttosto un particolare metodo di pratica che permette di tradurre in realtà il principio secondo cui se ci si muove in stato di "mushin" (mente-cuore vuoto) le tecniche nascono in modo spontaneo e si trasformano all'infinito, cosa che un tempo costituiva il fine ideale ricercato dalla maggior parte degli specialisti di arti marziali." (Hiroshi Tada sensei)
sabato 22 febbraio 2014
La via fiorita del guerriero
Come
abbiamo accennato nell’introduzione a questo capitolo, tutte le arti che si
intendono come ‘vie’ di realizzazione spirituale hanno, nell’ambito della
cultura tradizionale estremo orientale, radici profonde saldamente intrecciate
tra loro. Anche le arti marziali e l’arte della composizione del giardino e del
paesaggio, se così intese, hanno diversi ed evidenti riferimenti comuni, malgrado possa sembrare
che trattino ambiti piuttosto distanti tra loro.
Nell’arte
del combattimento il mondo della manifestazione della natura viene considerato
sotto vari aspetti che cercheremo ora di prendere in esame, ma per prima cosa è
necessario ricordare e tenere presente che la natura è, per l’orientale, un
ambito in cui l’uomo è totalmente compreso: egli fa parte di un medesimo continuum
vibrante da cui attinge insegnamenti ed energia, ed è sempre perfettamente
consapevole della profonda analogia che lega il microcosmo uomo, all’universo.
E’
noto, che l’albero di ciliegio (sakura)
è stato eletto a simbolo del bushidō, poichè
la bellezza effimera del suo fiore ricorda la caducità della vita: “I
samurai sono l’incarnazione del bushidō, attraverso gli insegnamenti del fior
di ciliegio”[1].
La
bellezza e la grazia nei confronti di tutte le cose della natura nel loro
incessante fluire, desta nell’animo dei giapponesi un sentimento che è
detto ‘mono no aware’, letteralmente
‘commozione delle cose’. Questo
sentimento, “rende il giapponese così
emotivamente partecipe al ritmo sacro della natura e pronto a manifestare serena
compassione verso le cose belle ed effimere. […] Nel fior di ciliegio la natura si rivela pura, come adamantina è la
lealtà di un samurai. La fragranza del sakura è simile al nome onorato di un samurai, che detesta la codardia e si
sforza di lasciare dietro a sé un nome fragrante e imperituro. Il fiore di
ciliegio, giunto a completa fioritura, cade repentinamente, così l’ideale del
samurai è morire combattendo senza rimpianto quando l’ora giusta è giunta”[2].
Anche
se la parola bushidō[3] pare
abbia origini piuttosto moderne[4], il
sistema di valori spirituali e morali su cui esso si basa risale invece a tempi
antichissimi. La letteratura giapponese abbonda di racconti che narrano le
gesta di eroi guerrieri, a cominciare dal Kojiki,
primo testo scritto giapponese (VIII sec.) di storie e miti, ove è possibile risalire
al primo Imperatore del Giappone, Jimmu,
discendente della dea solare Amaterasu e chiamato anche ‘Guerriero Divino’ e Yamato Takeru, della sua
stessa stirpe, uomo dalle qualità etiche e morali irreprensibili. Questi fu un
modello di riferimento per le generazioni a venire, poiché incarnava le qualità
ideali del guerriero: l’eccezionale coraggio, la lealtà, la fermezza e la
crudeltà, ma anche una spiccata sensibilità che lo muoveva allo studio delle
altre arti, in special modo alla poesia e alla calligrafia[5].
La ‘morale eroica’ prevedeva una disciplina
ferrea come modello di vita, guidata dal ‘retto agire’ e regolata da norme
codificate di comportamento, ma anche da un profondo senso del dovere, sia nei
confronti del proprio ruolo di casta[6], che
della propria condizione umana. Come il magnifico fiore di ciliegio, sboccia e
fiorisce delicato, regalando lo spettacolo della sua bellezza e poi muore in
una magica pioggia di petali, esempio di umiltà e grazia, così il guerriero,
non vive per sé, ma in funzione del suo compito, consapevole che potrà essere
raggiunto solo se, nel corso della sua vita, egli avrà aderito alla propria
vera natura.
A
questo proposito riteniamo calzante il
parallelo con la casta guerriera indù degli Ksatriya: “…il carattere più profondo [del bushi] si delinea in correlazione con il concetto indù di dharma: il dovere inerente alla propria natura interiore, la legge d’azione legata alla propria casta. La
legge del ksatriya è il combattimento
e la morte, e solo la fedeltà al proprio dharma gli può consentire la realizzazione spirituale ed il superamento
dell’effimera condizione umana. […] L’azione
è dunque spiritualmente efficace solo se è conforme alla natura interiore di
chi la esegue”[7].
In effetti, come vedremo, anche la tradizione guerriera giapponese si
sviluppa in un contesto ove correnti
buddiste e taoiste si accavallano e si sovrappongono al già presente culto
scintoista, fino ad amalgamarsi e
confondersi tra loro[8] .
Acquisire
la consapevolezza della proprie reale natura è dunque il vero obiettivo del bushi, che cadrebbe in un errore fatale se si aspettasse di
cogliere “frutti di pesco, da rami di
pruno”.
Nella
storia del Giappone, la fine dell’epoca Heian (1185) e il trasferimento della
capitale dalla città di Kyoto a quella di Kamakura, segnano un passaggio chiave
per comprendere l’importanza che assunse la figura del guerriero nell’ambito
della gerarchia sociale nipponica. In quel momento infatti, termina un lungo periodo
di pace e prosperità economica in cui si
erano molto sviluppate le arti legate a un’estetica ricca e raffinata,
in favore di una società che si sarebbe basata sul culto della purezza e della
semplicità, sulla vita “vera, dura, la
quale come fiamma purificasse dalle scorie”[9]. L’affermarsi del buddismo zen poi, giunto
attraverso Cina e Corea già nell’VIII
secolo, fece sì che i bushi trovassero in questa via ascetica,
conforme al loro modello di vita, una naturale aderenza, al punto che spesso,
giunti alla fine della loro esistenza, si ritiravano nei monasteri per godere
della quiete e del silenzio e per affrontare gli ultimi anni di vita nella
contemplazione. D’altro canto è pure vero che gli stessi monaci, isolati nei
nuclei monastici del frammentato territorio del Giappone medioevale, erano, nel
caso di aggressioni, in grado di difendere le loro posizioni: la pratica delle
arti marziali era infatti, come vedremo, diffusa tra loro da molto tempo.
La
preparazione del samurai, che già
doveva conoscere l’uso di differenti tipi di arma, quali l’arco, la lancia, la
sciabola, il giavellotto e l’abilità nella lotta come nell’equitazione,
prevedeva anche l’acquisizione di altre arti: la calligrafia, la poesia,
l’ikebana, la musica. Inoltre il guerriero, che per lunghi periodi si trovava a
percorrere ampie distanze a piedi o a cavallo, era certamente in grado di
riconoscere le erbe commestibili da quelle indigeste e quelle curative da
quelle velenose. La coltivazione e la raccolta delle erbe mediche ha infatti sicuramente
costituito un bagaglio di conoscenze necessarie al samurai e connesse ad altre
pratiche mediche spesso segrete e proprie di ogni clan. E’ certo inoltre che
conoscesse i cicli delle piantagioni e dei raccolti, poiché egli stesso nei
periodi di pace, seguiva e partecipava ai lavori nei campi insieme ai contadini[10].
Il
periodo feudale del medioevo giapponese, decenni di guerre e battaglie, di crudeltà
e spietatezza, fu scenario di gesta rimaste leggendarie tra i samurai di differenti fazioni, che però
ritrovavano, se costretti dalla necessità, compattezza e unione di intenti nel
salvaguardare l’integrità delle isole dell’arcipelago rispetto a intrusioni
dall’esterno[11].
Ma anche in questo tribolato periodo di sangue e massacri, guerrieri come Taira
no Tadanori (1144-1184) danno prova di estrema raffinatezza; all’interno
dell’elmo che abitualmente indossava fu
ritrovato infatti, dopo la morte, un fascicolo di sue poesie tra le quali:
Discende già la notte;
Albergo
M’è l’ombra d’un ciliegio,
Ed oste
Un fiore[12]
I
guerrieri valorosi e finemente istruiti nelle arti e nelle discipline
tradizionali avevano precisi obiettivi, ma il più importante era senz’altro
quello di prepararsi ad affrontare con coraggio e dignità la morte. Una morte
che in ogni caso doveva giungere solo se strettamente necessario, vale a dire,
se e quando non vi fosse alternativa: né un momento dopo, ma neppure un momento
prima, poiché sprecare la propria esistenza con una morte prematura era
considerato un atto indegno di un uomo di valore e il togliersi la vita senza
una fondata motivazione, un gesto comunque scellerato[13]. Ad
ogni modo quest’idea di poter dominare il pensiero della morte, di andare oltre
la dicotomia vita-morte è uno dei fondamenti dello zen ed equivale a superare
anche l’interdipendenza tra oggetto e soggetto. “I giapponesi colgono dunque gli oggetti senza dissociarli dal ritmo che
assumono i loro gesti in rapporto agli stessi oggetti e in rapporto agli altri.
Il modo in cui essi colgono gli oggetti astratti o concreti è molto più sciolto
rispetto alla modalità tipica degli occidentali, che considerano gli oggetti in
se stessi, definiti da caratteristiche passibili di una descrizione obiettiva. In
questo si deve scorgere una profonda differenza di atteggiamento nei confronti
della natura. Nella tradizione giapponese la natura non è mai stata oggetto di
studio, bensì è stata piuttosto considerata come un tema più ampio nel quale è
compreso anche l’uomo”[14].
Con
l’era Tokugawa (1603), un periodo di relativa pace durato circa 250 anni,
ovvero fino alla fine della società feudale, l’arte del guerriero pose l’accento sui valori etici e
morali confuciani incentrandosi ancor di più sul raggiungimento della saggezza
intesa come punto d’equilibrio tra l’addestramento nelle discipline marziali e
la propria sensibilità intellettuale e spirituale[15]. Riportiamo
l’esempio di Asano Naganori, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo, egli fu scelto dallo shogun tra diversi e potenti daimyo
per ricevere un inviato imperiale da Kyoto: “..era, infatti nella piena fioritura della sua radiosa giovinezza. Lo
splendore e l’eleganza del suo abbigliamento provocavano la costante
ammirazione di una corte in cui, per di più, ognuno cercava di eclissare i suoi
rivali. Fine letterato, innamorato di tutte le cose belle, era stato visto
rimanere per molte ore in ginocchio, rapito, davanti a un ramo di pesco fiorito
sotto le ultime nevi della primavera. Alcune delle sue poesie erano state
cantate davanti al Mikado.”[16]
In
questa fase storica e ancor di più in quella successiva, quando l’uso della
spada divenne ormai anacronistico e la
società si riorganizzò secondo modelli importati dalla cultura d’occidente, il budō divenne sempre più esplicitamente
un “sistema di pratiche tradizionali”, una ‘via’, dō. “E’ infatti propria della
cultura giapponese l’idea che tutte le arti a un certo livello di profondità si
riuniscano in un medesimo ambito spirituale. Tale ambito, cui è possibile
arrivare mediante ogni disciplina, è l’essenza di tutte le arti.
L’approfondimento di ogni singola disciplina è considerato indispensabile per
raggiungere una situazione in cui la capacità personale non sia limitata a un
solo campo, bensì sia estesa a un campo molteplice, universale. Una frase di
Miyamoto Musashi, maestro di sciabola in Giappone agli inizi del XVII secolo, è
caratteristica di questa nozione culturale: ‘ Mi sono addestrato tutti i
giorni, da mattina a sera, e solo all’età di cinquant’anni mi sono trovato
nella ‘via della strategia dell’arte
marziale’. […] Da quel momento, mi sono trovato alla fine di quella via. E
questo mi ha consentito di essere maestro in tutte le arti”[17].
Anche
se esistono pochi riferimenti letterari espliciti a questo riguardo, è più che
plausibile dunque che tra tutte le arti a cui abbiamo accennato
vi fosse, in alcuni casi, anche quella della
composizione del giardino.
Il
monaco Takuan, (1573-1645), fu un maestro di spada di altissimo livello, che unì
alla pratica marziale quella della meditazione zen; eccellente calligrafo,
pittore, poeta, esperto della cerimonia del tè, fu anche maestro nell’arte
del giardinaggio. Scrisse per il suo
amico e allievo Yagyū Munenori il Fudōchishinmyōroku (La Testimonianza
Segreta della Saggezza Immutabile): “Quando
si chiede: “Qual è la realtà ultima del buddismo?”, il maestro risponde
immediatamente: “Un ramo di susino in fiore”, oppure: “Il cipresso nel
giardino”. C’è qualcosa di immutabile all’interno, che, tuttavia, si evolve
spontaneamente con le cose che si presentano al suo cospetto. Lo specchio di
saggezza le riflette istantaneamente le une dopo le altre, pur restando intatto
e sereno. Lo schermitore deve coltivare ciò”[18].
Takuan era monaco e proprio ai monaci era
riservata per lo più l’arte della composizione del giardino. Ma sappiamo anche
che i monaci hanno contribuito appunto alla diffusione sia delle dottrine e dei
precetti di ordine religioso ed etico, sia all’insegnamento di pratiche
marziali provenienti dal vicino continente asiatico, che avevano lo scopo di mantenere in buono stato la salute e la tonicità del corpo. Di questa originaria
funzione abbiamo testimonianza diretta anche da parte di Musashi: “In passato l’Arte della spada era
considerata una delle Dieci Abilità ed era annoverata tra le Sette Arti come
pratica salutare. Era certamente un’arte, ma come pratica salutare, non si
limitava all’esercizio di una tecnica”[19].
Riteniamo che ci sia un evidente nesso tra
l’arte del giardino e quella del mantenimento in buona salute del corpo, in
quanto il giardino è, per gli orientali, un’ulteriore espansione del proprio
corpo e la sua cura in stretta analogia con quella dell’uomo. Sotto questo
aspetto è interessante notare che il giardino giapponese molto raramente è
chiuso da alte mura, come invece lo è stato quello occidentale almeno fino al
‘700, quasi a sottolineare la continuità tra esterno ed interno, tra uomo e
natura. Nell’uno e nell’altro caso vi sono canali preferenziali in cui scorre
l’energia, il ki, che è essenziale conoscere e su cui bisogna lavorare per
ri-equilibrare le diverse tensioni e per ristabilire una certa armonia. Detto
questo ci sembra opportuno osservare che anche lo studio dell’arte
tradizionale del combattimento, così
come si è detto per la calligrafia, la pittura e l’arte del giardino, ha tratto
molti dei suoi insegnamenti da principi
taoisti. I maestri cinesi, infatti, prendevano a modello gli immortali, e dunque
avevano a cuore l’aspetto della longevità, oltre a quelli più comuni e
conosciuti della destrezza nell’uso di armi e della strategia. In particolare
ci riferiamo proprio al principio di reciprocità e di analogia tra universo
(macrocosmo) e corpo umano (microcosmo). Nel campo delle arti marziali cinesi
abbiamo riferimenti molto antichi a questo riguardo: risalgono alla seconda metà del XIII secolo, epoca in
cui visse il fondatore del Tai- Chi-Chuan[20], Chan
San-Feng[21].
Egli aggiunse allo Sao-Lin-chuan[22], la
teoria dell’I-Chig e la pratica del Chi Kung, per un tipo di pratica che “trascende l’arte marziale e include volontà,
mente, corpo e natura nella visione della pratica del Tao, o via della natura.
[...] Quando Chang San- Feng vide i
monaci praticare la boxe sulla montagna Wu Tang, pensò che essi usassero troppa
forza esterna e che quindi perdessero facilmente l’equilibrio. Se Yin e Yang
erano bilanciati nel corpo, si poteva essere meno goffi. Di conseguenza egli
usò i principi del Tao della natura, il diagramma Tai-Chi e l’I Ching per
sviluppare il Tai-Chi-Chuan. Lo scopo dei movimenti del Tai-Chi è quello di
trasferire il Chi, o energia intrinseca, allo Shen, o spirito, e di usare la
forza interiore piuttosto che quella esteriore”[23]. Tra le
tante leggende che raccontano le gesta di questo personaggio, divenute nel
tempo un amalgama di storia e mito, come quelle ad esempio che lo vedono
passeggiare sulla neve senza lasciare impronte, uccidere pitoni a mani nude,
sollevare massi di dimensioni e peso elevatissimi esercitando una forza
sovrannaturale, afferrare frecce con i denti, ecc., ne riportiamo per esteso una a nostro avviso particolarmente
significativa: “E’ detto che Chang San-
Feng avesse, cinque principali
passatempi: 1) danzare con la spada al chiaro di luna [per richiamare
energia], 2) praticare il Tai-Chi-Chuan nelle
notti buie [per apportare vigore], 3)
scalare le montagne nelle notti ventose [per allungare il respiro], 4)leggere i classici nelle notti di
pioggia [per pulire la mente], 5)
meditare a mezzanotte [per illuminare la propria natura][24]. Queste
storie concorrono a dimostrare come il vecchio maestro avesse raggiunto una
perfetta armonia fra corpo, spirito e le forze dell’universo. L’aspetto del
mantenimento di buona salute e di longevità presente nel Tai-Chi-Chuan comporta,
non solo lo studio del costante trasformarsi dello Yin in Yang e viceversa, ma
anche un’applicazione della teoria dei cinque elementi, considerati principi
dinamici, che incessantemente si producono e si distruggono tra loro, si
attirano e si respingono reciprocamente secondo comportamenti dettati dalle
qualità intrinseche di ognuno e individuati da un’attenta osservazione e una
profonda conoscenza dei fatti della natura. La teoria Wu-Shing, o dei cinque elementi, terra, fuoco, legno, acqua,
metallo, ha più di duemila anni ed è
considerata dal taoismo alla base della comprensione delle leggi che regolano l’universo. La sua applicazione
in campo marziale trova riscontro anche nei più semplici movimenti: “…Vediamo infatti che come un passo in avanti è associato al metallo, una
ritirata al legno, guardare a sinistra all’acqua, a destra al fuoco e
l’equilibrio centrale è associato alla terra. Quindi oltre a favorire una
salutare relazione Yin Yang fra l’attività mentale e il corpo fisico, il
Tai-Chi-Chuan è destinato a
bilanciare gli organi interni e a promuovere l’armonia nel corpo intero”[25].
Ma
la buona forma fisica per quanto necessaria, non è, come abbiamo visto, il solo
scopo del guerriero che, ad un certo livello, deve riuscire appunto a
trasferire tutta l’energia accumulata dal corpo, allo Shen,
lo spirito. Sono molti i maestri leggendari di spada e di altre arti marziali,
che hanno scritto le loro riflessioni, racchiuse oggi in preziosi trattati,
giungendo sempre alla medesima conclusione, ovvero che il fine di queste arti non
è l’accrescimento della forza fisica per sopraffare il prossimo, né
l’acquisizione di quelli che vengono chiamati “superpoteri”, che semmai saranno
la naturale conseguenza del raggiungimento di qualcosa di ben più difficile e
temerario: conoscere se stessi, essere in armonia con l’universo, raggiungere
l’illuminazione, poiché “La vera vittoria è la vittoria su se stessi”.
Imitare
il modo di operare della natura significa
scoprire i suoi e i propri segreti : “La
Via di Heiho è la Via della natura. Conoscere il segreto della natura significa
essere in armonia con il ritmo degli eventi: quando saprete apprezzare questa
realtà, sarete in grado di battervi naturalmente e di sconfiggere senza sforzo
qualunque avversario. Questa è la Via del Vuoto: in questo libro vi spiegherò
come seguire la giusta Via in armonia con la natura”[26].
Nei
metodi e nelle tecniche di apprendimento delle diverse arti marziali, si
riscontra frequentissimo l’uso di metafore che si riferiscono al mondo della
natura e a quello del giardino.
Ad
esempio, com’è ovvio da quanto abbiamo fin’ora detto, l’apprendista comincia il
lavoro “dall’esterno”, forgiando il corpo, come un terreno da vangare per poterlo rendere fertile. Dovrà farsi
morbido e forte al tempo stesso: se è troppo rigido il corpo si spezzerà, come un ramo secco, ma se rimane agile
ed elastico, ma non molle, potrà
trasmettere una forza invincibile.
Lo
studio delle arti marziali passa poi, necessariamente, dall’esercizio del corpo
a quello della respirazione. La respirazione ritmata e profonda calma
l’agitazione mentale e rigenera il fisico come la linfa nutre la pianta. I saggi taoisti e i maestri orientali dicono
del Vero uomo che egli “respira
attraverso i piedi”, proprio come un
albero trae nutrimento e stabilità dalle proprie radici[27]. “Osservate come si incurvano alcuni anziani:
essi prendono energia solo dal cielo; ma per rimanere giovani, occorre fare
come naturalmente fanno i bambini molto piccoli e le piante: trarre la forza
dalla terra e, rilassando il corpo, farla scorrere fino al sorriso” [28].
La respirazione nelle arti marziali non è
intesa solamente come scambio biochimico di ossigeno e anidride carbonica;
essa è anche vibrazione leggera e
raffinata con la quale si pulisce la propria anima a cominciare dagli organi di
senso. Questa ‘pulizia’ spesso accompagnata da diversi tipi di pratiche di
purificazione[29],
è funzionale all’acquisizione del
cosiddetto sesto senso, di importanza vitale per il bushi; la vita e la morte dipendono infatti dalla sua capacità
percettiva del pericolo e dalla sua abilità nell’evitare le situazioni
critiche, di vincere ancora prima di combattere.
A
questo scopo Takuan Sōhō, nel suo Fudōchishinmyōroku, pone l’accento sulla necessità di forgiare la
propria mente in modo che non abbia più
‘luoghi di stallo’, ovvero di
attaccamento. Questa condizione permette di reagire con immediatezza ed efficacia: “La mente dell’attaccamento sorge dalla mente
che si ferma. […] Il fermarsi diventa legame con vita e morte. Se si guardano i
fiori di ciliegio o le foglie d’autunno, è importante che la mente si abitui a
non fermarsi con essi. Una poesia di Jien dice:
Il fiore che emana il suo profumo
davanti alla mia porta di legno
lo fa con indifferenza.
Io, tuttavia, mi siedo e lo osservo.
Com’è pietoso questo mondo.
Questo significa che è la Non-Mente a
permettere al fiore di liberare il suo profumo, mentre lo guardo, ma la mia
mente questo non lo coglie. Che rincrescimento nel realizzare che la nostra
mente possa renderci così cristallizzati!”[30].
Su
questo rifletteva forse Yagyu Munenori, il destinatario del testo sopra riportato, mentre, assorto nella contemplazione dei
ciliegi in fiore di un giardino, gli capitò di avvertire la volontà di un
aggressione contro di lui (sakki). Ma in quel giardino erano presenti solo lui e
il suo fedele servitore, al quale allora disse: “Poco fa, mentre guardavo i ciliegi ho sentito il sakki. Mi sono
guardato intorno, ma non c’era nessuno che mi potesse essere ostile. […] Allora
il servitore che portava la sciabola si scusò: ‘A dire il vero prima, nel
guardarvi, mi è venuto da pensare che in quell’istante avrei potuto uccidervi
con la sciabola’. Allora Munenori fu soddisfatto e disse: ‘Bene. Ho capito”[31].
Il
sesto senso è dunque raggiungibile con l’affinamento delle proprie qualità percettive,
che, insegnano i grandi maestri del bushidō,
nell’uomo Vero sono illimitate.
Morihei Ueshiba (1883-1969), il fondatore
dell’aikidō, raccontò di come riusciva
ad evitare gli attacchi che gli venivano sferrati, fossero questi provenienti da
uno o da molti avversari anche più giovani e aitanti di lui: “Appena prima dei suoi attacchi vedo un
raggio di luce davanti agli occhi che mi rivela la direzione in cui intende
attaccare”[32].
“Ogni
tre giorni Morihei annunciava: ‘Stanotte si pratica’. I discepoli non potevano distinguere nulla nel buio della notte, ma
Morihei urlava loro: ‘ Attenti alla roccia alla vostra sinistra’, e ‘Attenti ai rami sopra di voi’. Li armava di spade di legno e ordinava di
attaccarlo. All’inizio nessuno aveva la minima idea di dove fosse […]. Quindi
Morihei rovesciava il gioco: lui li seguiva, portando la lama affilata come un
rasoio a un pelo dalla loro testa (molti guerrieri erano dediti a pratiche
ascetiche nei secoli precedenti, e sceglievano il monte Kurama perché si diceva
che la divinità tengu che vi dimorava
fosse un esperto di scienza militare)”[33]
La
totale padronanza dello spazio circostante, tramite una profonda conoscenza
dell’alternanza del ritmo degli oggetti della natura e del vuoto è alla base dei principi dell’arte della composizione
del giardino come di quelli dell’autodifesa:
in un caso infatti, si mira alla realizzazione di un luogo in cui ogni singola
pianta, albero, pietra si accosti e si sposi all’altra in funzione di un’ unità
armonica che perdurerà nonostante il continuo mutare del loro aspetto
esteriore, nelle forme, nel volume e nei colori, che si modificano
incessantemente insieme alle stagioni. Nell’altro, allo stesso modo, si estende
il campo delle proprie percezioni fino a divenire tutt’uno con l’ambiente in
cui ci si trova per non dare più adito alla minima inaspettata intrusione: non
dovrà essere lasciata la più piccola apertura, alcuno spazio vuoto, nessuna
possibilità d’attacco al potenziale nemico: se infatti si fosse sorpresi alle
spalle o inaspettatamente sarebbe
inevitabile lo scontro e probabilmente la sconfitta. Così viene detto che è
necessario “sentire con gli occhi e vedere con le orecchie”.
Il
maestro di aikidō Hiroshi Tada[34], sostiene
che il senso del tatto si deve estendere oltre la superficie corporea della
pelle; dapprima per un intervallo spaziale
più limitato poi, con l’allenamento e l’esperienza, sempre più ampio. Lo
sguardo, metsukè, ha in tutto questo un
ruolo determinante in quanto partecipa a questo sentire, esso è infatti di
notevole supporto al senso dell’equilibrio, lo si potrebbe quasi definire uno
sguardo ‘prensile’. Ma gli occhi, che nelle tradizioni più diverse sono
considerati gli organi della luce e in analogia con gli astri, anche nell’applicazione
delle arti marziali hanno in realtà tra loro funzioni complementari: “…Anche nel caso di una polarità del tutto
parziale ed esteriore come la simmetria naturale, le parti non sono
assolutamente equivalenti: così, l’occhio destro è attivo e ‘penetrante’ e
l’occhio sinistro passivo e ‘ricettivo’”[35].
E’ questo
il motivo per cui i maestri insegnano che trovandosi faccia a faccia con un
temibile avversario è preferibile guardarlo focalizzando un punto in mezzo ai due occhi, oppure il solo
occhio sinistro e solo raramente entrambi gli occhi. Ma superata la fase iniziale
di studio reciproco, nel caso ad esempio dell’applicazione di una tecnica di aikidō, proprio perché in quest’arte si
ricerca l’unione con il proprio avversario e non il contrasto [36], lo sguardo di chi riceve si volge nella stessa
direzione di quello dell’attaccante, per poi fermarsi altrove: esso allora diviene
l’’ancora’ che stabilizza il movimento nella fase del Kimè, ovvero l’apice in forza e perfezione del movimento[37]. Come se
fosse la retta generatrice di un cono, in cui l’altezza è data dalla statura
dell’uomo, lo sguardo dapprima si mantiene in un perimetro circolare più
ristretto per meglio controllare l’equilibrio in movimento, ma poi, con
l’esperienza, si allargherà fino a perdersi all’orizzonte, divenendo specchio
che tutto vede, sente e riflette. Questo spazio, così delimitato all’inizio ed
esteso all’infinito poi, è spesso simbolicamente descritto come il proprio
giardino, contemporaneamente interno ed esterno al proprio cuore-mente. Al
centro del giardino si ritrova se stessi, la quiete e la concentrazione; dal
cuore alla sua periferia tutto è registrato dall’attenzione vigile:
ogni uccello che oltrepassa la siepe è
avvertito, ogni foglia che leggera si stacca dal ramo e tocca terra è
percepita. Qui nulla sfugge al guerriero che veglia contemporaneamente sul
proprio cuore e sulla sua dimora, la terra.
Ad un certo punto della sua vita “…Morihei andò in giardino a prendere acqua
dal pozzo per lavarsi le mani e la faccia dal sudore. Improvvisamente cominciò
a tremare e si sentì immobilizzare. La terra sotto i suoi piedi prese a
scuotersi e si trovò immerso in raggi di pura luce che scendevano dal cielo.
Circondato da una nebbia dorata, sentì svanire ogni meschina presunzione e
assunse la forma di un Essere Dorato. Morihei percepì l’intimo funzionamento
cosmico e quindi comprese: “ Io sono l’Universo”[38].
[1]
Prof. Shimazu, citato da Rinaldo Massi, Kami
to eiyū, in Inazō Nitore, Bushidō,
ed. Sannō-kai, Padova 1991, p. 18.
[2]
Ibidem, p. 18.
[3]
Letteralmente l’ideogramma di bu è composto dal segno
dell’alabarda e da quello di tomaru che significa dominare,
mentre shi, a forma di piccola croce, vuol dire uomo, e dō ‘via’, ‘strada’.
[4]
Fosco Maraini, Ore giapponesi, Oglio
editore, Milano 1988, p. 351, Prima di questo termine, nato secondo alcuni
soltanto agli inizi del ‘900, nell’epoca Kamakura, si utilizzava ‘kyūba
no michi’, ‘la via dell’arco e del cavallo’.
[5]
Cfr. M. A. Rossi, Samurai, uomini di
spada e di penna, in Samurai, scritti
di guerrieri giapponesi, Luni, Milano 2004.
[6] Il ruolo sociale del Samurai si delinea con relativa chiarezza nell’era Kamakura (1185-1336), periodo in cui nasce il feudalesimo e si diffonde lo zen, introdotto dalla Cina nel periodo
Asuka (552-710). Il guerriero apparteneva alla casta più elevata delle quattro
che dal periodo Edo hanno suddiviso l’intera società del Giappone feudale, "shi-no-ko-sho",
l'ordine delle caste: shi =
guerrieri, no = agricoltori, ko = artigiani, sho = mercanti.
[7]
Rinaldo Massi, Bushidō no kokoro, in
Inazō Nitore, Bushidō, op. cit., p. 11.
[8]
Anche il saggio cinese Chuang-tzu spiega infatti questo punto chiaramente: “Un piccolo smarrimento modifica
l’orientamento dell’uomo. Un grande smarrimento modifica la sua natura. […] Di colui che forza la propria natura allo
studio dei cinque toni, io non dirò che ha l’udito fino, fosse anche un
musicista come Shi-kuang. Così di colui che forza la propria natura per
discernere i cinque colori, io non dirò che ha la vista acuta, fosse pure
chiaroveggente come Li-zhu. L’eccellenza non risiede nella bontà o nella
giustizia, ma nelle qualità intrinseche di ciascuno di noi. Eccellente è chi
conta soltanto sulla propria natura originaria e sulle proprie disposizioni
innate. Così l’uomo dall’udito fine non sente l’altro, ma se stesso, l’uomo
chiaroveggente non vede l’altro ma se stesso. Colui che non vede se stesso ma
vede l’altro, che non comprende se stesso ma comprende l’altro, possiede le
qualità di un altro e perde le proprie. Così,
egli realizza l’ideale di un altro e abbandona il proprio” cfr. Zhuang-zi, a cura di Liou Kia-hway,
Adelphi, Milano, 1993.
[9]
Fosco Maraini, op. cit., p. 349.
[10]
Fosco Maraini, op. cit., p. 353.
[11]
E’ il caso del duplice attacco da parte dei mongoli e dei cinesi di Kublai
Khan, nel 1274 e nel 1281.
[12]
Fosco Maraini, op. cit., p. 349.
[13] Il misterioso “Credo dei samurai” recita anche : “Io
non ho genitori, il cielo e la terra sono i miei genitori; […] Io non ho
nemici, l’imprudenza è il mio nemico”. Cfr. Rinaldo Massi, op. cit., p. 28.
[14]
Kenji Tokitsu, Lo zen e la via del karate,
Sugarco edizioni, Varese 1979.
[15] Il termine spesso adoperato per esprimere questo
rapporto d’equilibrio è bun-bu: “ Si dice che quella del guerriero sia la
doppia via del pennello e della spada” da M. Musashi, Go rin no sho, Demetra, Verona 1995, p. 15.
[16]
G. Soulié de Morant, La storia dei 47
Ronin, Luni, Milano 2005, pp. 29-30.
[17]
Kenji Tokitsu, op.cit., p. 39.
[18]
D.T. Suzuki, Essai sur le boddhisme zen,
Paris, Albin Michel in K. Tokitsu, Lo
zen…, op. cit., p.137.
[19]
Miyamoto Musashi, Il libro dei cinque
anelli, Demetra, Verona 1995, p.16.
[20]
Anche se in realtà è noto che vi fossero delle pratiche antecedenti
all’esistenza storica di Chan San-Feng, in epoca Tang (618-905 d.C.). Cfr. Jou
Tsung Hwa, Il Tao del Tai-Chi Chuan,
Ubaldini, Roma 1986.
[21]
Chan San-Feng nacque il 9 aprile del 1247, ancora oggi questa data viene
celebrata con feste e dimostrazioni pubbliche di Tai-Chi-Cuan. La leggenda
vuole che appena nato avesse già con un aspetto da saggio: la schiena arcuata
della tartaruga e la figura della gru. Jou Tsung Hwa, op.cit., p.14.
[22]
“Il shao-Lin-Chuan è un esercizio creato
nel famoso tempio buddista di Shao-Lin, situato in una provincia a nord della
Cina: Ho Nan. Il tempio fu costruito nelle montagne Shiao-Shi durante la
dinastia Wei nel III sec. d.C. Mo, il maestro indiano Bodhidarma che venne in
Cina nel 527 d.C. insegnò lì per molti anni durante la dinastia Liang (VI sec.
d.C.. Notando che molti monaci erano deboli,
malaticci, e che spesso si addormentavano durante la meditazione e i
sermoni, Ta-Mo indicò l’importanza di avere un corpo sano per poter sviluppare
un forte spirito interiore”. Jou Tsung Hwa, op. cit., p.14.
[23] Jou Tsung Hwa, op. cit., p.16.
[24] Jou Tsung Hwa, op. cit., p.17.
[25] Jou Tsung Hwa, op. cit., p.43.
[26]
M.Musashi, Il libro dei cinque anelli,
(Go rin no sho), op. cit., p.23.
[27] Nelle posizioni del tai-chi-chuan, i maestri cinesi spiegano chiaramente: il piede
destro si radica in senso orario, il sinistro in senso antiorario; nessuna
efficacia può avere un attacco se non vi è la ‘radice’ ben fissata, da cui,
sola, può nascere la spinta. Questa si sviluppa in senso ascendente e
spiraliforme, avvolgendo le membra fino a scaturire, potenziata, dalle estremità opposte (le braccia e l’altra
gamba) determinando l’alternarsi costante dello yin e dello yang.
[28]
Appunti dal M° Noro, di origine giapponese, attualmente vive a Parigi dove ha
fondato il Ki no michi, ‘via del ki’.
[29]
Cfr. cap.1 di questo libro, p….
[30]
Takuan Sōhō, Sogni, Scritti di un Maestro
Zen a un Maestro di Spada, Luni, Milano 1995, p.45.
[31] Kenji Tokitsu, op. cit., p.119.
[32]
John Stevens, Ueshiba, Luni, Milano
1997, p.41.
[33]
Ibidem, p.91.
[34]
Responsabile didattico dell’Aikikai d’Italia, allievo diretto del grande
maestro Moriei Ueshiba, il m° Tada, 9°
dan di aikidō vive attualmente a
Tokyo.
[35] Frithjof Schuon,
Images de l’Esprit,
Shinto-Bouddhisme-Yoga, Paris, Flammarion, 1961, p.23, n.1,. “Se nel mito giapponese è l’occhio sinistro,
contro ogni attesa, che dà nascita al Sole è perché il Sole è considerato qui –
come del resto nelle lingue germaniche – sotto l’aspetto della femminilità, di
cui rappresenterà allora non il lato passivo e frammentario, ma al contrario il
lato attivo e materno: il Sole ha la fecondità, è attivo in quanto ‘crea’
i figli, mentre la luna – il maschio
visto nella prospettiva del matriarcato – è ‘sterile’ nel senso che essa ignora la maternità, che sola
è un ‘irraggiamento’; Il maschio lunare decresce nella sua infruttuosa solitudine,
e non ottiene la sua pienezza che grazie alla donna, che donandogli la gioia
gli conferisce una sorta di ‘vivificante luce’.” Ibidem, p.61 Ci pare interessante notare anche che il
legame tra la luce e gli occhi, che in questo caso sono il sole e la luna
accoppiati, trova riscontro nei rispettivi ideogrammi: il sole 日e la luna月, infatti, se posti l’uno a fianco dell’altro, danno origine ad un terzo
ideogramma 明che significa ‘luminosità’, ovvero “l’intero processo della luce, la radiazione,
la ricezione ed il riflesso della luce”. Cfr. Ezra Pound, Opere scelte, Mondadori, Milano 1970,
p.431.
[36]
Aikido significa appunto Ai: armonia,
unione; Ki: energia; Dō: via
[37] Kenji Tokitsu, op. cit., p.64.
[38]
Ibidem, p. 41.
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