sabato 22 febbraio 2014

La via fiorita del guerriero




Come abbiamo accennato nell’introduzione a questo capitolo, tutte le arti che si intendono come ‘vie’ di realizzazione spirituale hanno, nell’ambito della cultura tradizionale estremo orientale, radici profonde saldamente intrecciate tra loro. Anche le arti marziali e l’arte della composizione del giardino e del paesaggio, se così intese, hanno diversi ed evidenti  riferimenti comuni, malgrado possa sembrare che trattino ambiti piuttosto distanti tra loro. 
Nell’arte del combattimento il mondo della manifestazione della natura viene considerato sotto vari aspetti che cercheremo ora di prendere in esame, ma per prima cosa è necessario ricordare e tenere presente che la natura è, per l’orientale, un ambito in cui l’uomo è totalmente compreso: egli fa parte di un  medesimo continuum vibrante da cui attinge insegnamenti ed energia, ed è sempre perfettamente consapevole della profonda analogia che lega il microcosmo uomo, all’universo.
E’ noto, che l’albero di ciliegio (sakura) è stato eletto a simbolo del bushidō, poichè la bellezza effimera del suo fiore ricorda la caducità della vita: I samurai sono l’incarnazione del bushidō, attraverso gli insegnamenti del fior di ciliegio[1].
La bellezza e la grazia nei confronti di tutte le cose della natura  nel loro  incessante fluire, desta nell’animo dei giapponesi un sentimento che è detto ‘mono no aware’, letteralmente ‘commozione delle cose’.  Questo sentimento, “rende il giapponese così emotivamente partecipe al ritmo sacro della natura e pronto a manifestare serena compassione verso le cose belle ed effimere. […] Nel fior di ciliegio la natura si rivela pura, come adamantina è la lealtà di un samurai. La fragranza del sakura è simile al nome onorato di un samurai, che detesta la codardia e si sforza di lasciare dietro a sé un nome fragrante e imperituro. Il fiore di ciliegio, giunto a completa fioritura, cade repentinamente, così l’ideale del samurai è morire combattendo senza rimpianto quando l’ora giusta è giunta[2].
Anche se la parola bushidō[3] pare abbia origini piuttosto moderne[4], il sistema di valori spirituali e morali su cui esso si basa risale invece a tempi antichissimi. La letteratura giapponese abbonda di racconti che narrano le gesta di eroi guerrieri, a cominciare dal Kojiki, primo testo scritto giapponese (VIII sec.) di storie e miti, ove è possibile risalire al primo Imperatore del Giappone, Jimmu,  discendente della dea solare Amaterasu e chiamato anche  ‘Guerriero Divino’ e Yamato Takeru, della sua stessa stirpe, uomo dalle qualità etiche e morali irreprensibili. Questi fu un modello di riferimento per le generazioni a venire, poiché incarnava le qualità ideali del guerriero: l’eccezionale coraggio, la lealtà, la fermezza e la crudeltà, ma anche una spiccata sensibilità che lo muoveva allo studio delle altre arti, in special modo alla poesia e alla calligrafia[5].
 La ‘morale eroica’ prevedeva una disciplina ferrea come modello di vita, guidata dal ‘retto agire’ e regolata da norme codificate di comportamento, ma anche da un profondo senso del dovere, sia nei confronti del proprio ruolo di casta[6], che della propria condizione umana. Come il magnifico fiore di ciliegio, sboccia e fiorisce delicato, regalando lo spettacolo della sua bellezza e poi muore in una magica pioggia di petali, esempio di umiltà e grazia, così il guerriero, non vive per sé, ma in funzione del suo compito, consapevole che potrà essere raggiunto solo se, nel corso della sua vita, egli avrà aderito alla propria vera natura.
A questo proposito  riteniamo calzante il parallelo con la casta guerriera indù degli Ksatriya: “…il carattere più profondo [del bushi] si delinea in correlazione con il concetto indù di dharma: il dovere inerente alla propria natura interiore, la legge d’azione legata alla propria casta. La legge del ksatriya è il combattimento e la morte, e solo la fedeltà al proprio dharma gli può consentire la realizzazione spirituale ed il superamento dell’effimera condizione umana. […] L’azione è dunque spiritualmente efficace solo se è conforme alla natura interiore di chi la esegue[7]. In effetti, come vedremo, anche la tradizione guerriera giapponese si sviluppa  in un contesto ove correnti buddiste e taoiste si accavallano e si sovrappongono al già presente culto scintoista, fino ad  amalgamarsi e confondersi tra loro[8] .
Acquisire la consapevolezza della proprie reale natura è dunque  il vero obiettivo del bushi, che cadrebbe in un errore fatale se si aspettasse di cogliere “frutti di pesco,  da rami di pruno”.
Nella storia del Giappone, la fine dell’epoca Heian (1185) e il trasferimento della capitale dalla città di Kyoto a quella di Kamakura, segnano un passaggio chiave per comprendere l’importanza che assunse la figura del guerriero nell’ambito della gerarchia sociale nipponica. In quel momento infatti, termina un lungo periodo di pace e prosperità economica in cui si  erano molto sviluppate le arti legate a un’estetica ricca e raffinata, in favore di una società che si sarebbe basata sul culto della purezza e della semplicità, sulla vita “vera, dura, la quale come fiamma purificasse dalle scorie[9].  L’affermarsi del buddismo zen poi, giunto attraverso Cina e  Corea già nell’VIII secolo,  fece sì che i bushi trovassero in questa via ascetica, conforme al loro modello di vita, una naturale aderenza, al punto che spesso, giunti alla fine della loro esistenza, si ritiravano nei monasteri per godere della quiete e del silenzio e per affrontare gli ultimi anni di vita nella contemplazione. D’altro canto è pure vero che gli stessi monaci, isolati nei nuclei monastici del frammentato territorio del Giappone medioevale, erano, nel caso di aggressioni, in grado di difendere le loro posizioni: la pratica delle arti marziali era infatti, come vedremo, diffusa tra loro da molto tempo.
La preparazione del samurai, che già doveva conoscere l’uso di differenti tipi di arma, quali l’arco, la lancia, la sciabola, il giavellotto e l’abilità nella lotta come nell’equitazione, prevedeva anche l’acquisizione di altre arti: la calligrafia, la poesia, l’ikebana, la musica. Inoltre il guerriero, che per lunghi periodi si trovava a percorrere ampie distanze a piedi o a cavallo, era certamente in grado di riconoscere le erbe commestibili da quelle indigeste e quelle curative da quelle velenose. La coltivazione e la raccolta delle erbe mediche ha infatti sicuramente costituito un bagaglio di conoscenze necessarie al samurai e connesse ad altre pratiche mediche spesso segrete e proprie di ogni clan. E’ certo inoltre che conoscesse i cicli delle piantagioni e dei raccolti, poiché egli stesso nei periodi di pace, seguiva e partecipava ai lavori nei campi insieme ai contadini[10].
Il periodo feudale del medioevo giapponese, decenni di guerre e battaglie, di crudeltà e spietatezza, fu scenario di gesta rimaste leggendarie tra i samurai di differenti fazioni, che però ritrovavano, se costretti dalla necessità, compattezza e unione di intenti nel salvaguardare l’integrità delle isole dell’arcipelago rispetto a intrusioni dall’esterno[11]. Ma anche in questo tribolato periodo di sangue e massacri, guerrieri come Taira no Tadanori (1144-1184) danno prova di estrema raffinatezza; all’interno dell’elmo  che abitualmente indossava fu ritrovato infatti, dopo la morte, un fascicolo di sue poesie tra le quali:

Discende già la notte;
Albergo
M’è l’ombra d’un ciliegio,
Ed oste
Un fiore[12]

I guerrieri valorosi e finemente istruiti nelle arti e nelle discipline tradizionali avevano precisi obiettivi, ma il più importante era senz’altro quello di prepararsi ad affrontare con coraggio e dignità la morte. Una morte che in ogni caso doveva giungere solo se strettamente necessario, vale a dire, se e quando non vi fosse alternativa: né un momento dopo, ma neppure un momento prima, poiché sprecare la propria esistenza con una morte prematura era considerato un atto indegno di un uomo di valore e il togliersi la vita senza una fondata motivazione, un gesto comunque scellerato[13]. Ad ogni modo quest’idea di poter dominare il pensiero della morte, di andare oltre la dicotomia vita-morte è uno dei fondamenti dello zen ed equivale a superare anche l’interdipendenza tra oggetto e soggetto. “I giapponesi colgono dunque gli oggetti senza dissociarli dal ritmo che assumono i loro gesti in rapporto agli stessi oggetti e in rapporto agli altri. Il modo in cui essi colgono gli oggetti astratti o concreti è molto più sciolto rispetto alla modalità tipica degli occidentali, che considerano gli oggetti in se stessi, definiti da caratteristiche passibili di una descrizione obiettiva. In questo si deve scorgere una profonda differenza di atteggiamento nei confronti della natura. Nella tradizione giapponese la natura non è mai stata oggetto di studio, bensì è stata piuttosto considerata come un tema più ampio nel quale è compreso anche l’uomo[14].
Con l’era Tokugawa (1603), un periodo di relativa pace durato circa 250 anni, ovvero fino alla fine della società feudale, l’arte del guerriero pose l’accento sui valori etici e morali confuciani incentrandosi ancor di più sul raggiungimento della saggezza intesa come punto d’equilibrio tra l’addestramento nelle discipline marziali e la propria sensibilità intellettuale e spirituale[15]. Riportiamo l’esempio di Asano Naganori, vissuto tra il XVII e il XVIII secolo,  egli fu scelto dallo shogun tra diversi e potenti daimyo per ricevere un inviato imperiale da Kyoto: “..era, infatti nella piena fioritura della sua radiosa giovinezza. Lo splendore e l’eleganza del suo abbigliamento provocavano la costante ammirazione di una corte in cui, per di più, ognuno cercava di eclissare i suoi rivali. Fine letterato, innamorato di tutte le cose belle, era stato visto rimanere per molte ore in ginocchio, rapito, davanti a un ramo di pesco fiorito sotto le ultime nevi della primavera. Alcune delle sue poesie erano state cantate davanti al Mikado.[16]
In questa fase storica e ancor di più in quella successiva, quando l’uso della spada divenne ormai anacronistico e  la società si riorganizzò secondo modelli importati dalla cultura d’occidente, il budō divenne sempre più esplicitamente un “sistema di pratiche tradizionali”, una ‘via’, . “E’ infatti propria della cultura giapponese l’idea che tutte le arti a un certo livello di profondità si riuniscano in un medesimo ambito spirituale. Tale ambito, cui è possibile arrivare mediante ogni disciplina, è l’essenza di tutte le arti. L’approfondimento di ogni singola disciplina è considerato indispensabile per raggiungere una situazione in cui la capacità personale non sia limitata a un solo campo, bensì sia estesa a un campo molteplice, universale. Una frase di Miyamoto Musashi, maestro di sciabola in Giappone agli inizi del XVII secolo, è caratteristica di questa nozione culturale: ‘ Mi sono addestrato tutti i giorni, da mattina a sera, e solo all’età di cinquant’anni mi sono trovato nella ‘via della strategia dell’arte marziale’. […] Da quel momento, mi sono trovato alla fine di quella via. E questo mi ha consentito di essere maestro in tutte le arti”[17].
Anche se esistono pochi riferimenti letterari espliciti a questo riguardo, è più che plausibile  dunque che  tra tutte le arti a cui abbiamo accennato vi  fosse, in alcuni casi, anche quella della composizione del giardino.
Il monaco Takuan, (1573-1645), fu un maestro di spada di altissimo livello, che unì alla pratica marziale quella della meditazione zen; eccellente calligrafo, pittore, poeta, esperto della cerimonia del tè, fu anche maestro nell’arte del  giardinaggio. Scrisse per il suo amico e allievo Yagyū Munenori  il Fudōchishinmyōroku (La Testimonianza Segreta della Saggezza Immutabile): “Quando si chiede: “Qual è la realtà ultima del buddismo?”, il maestro risponde immediatamente: “Un ramo di susino in fiore”, oppure: “Il cipresso nel giardino”. C’è qualcosa di immutabile all’interno, che, tuttavia, si evolve spontaneamente con le cose che si presentano al suo cospetto. Lo specchio di saggezza le riflette istantaneamente le une dopo le altre, pur restando intatto e sereno. Lo schermitore deve coltivare ciò[18].
 Takuan era monaco e proprio ai monaci era riservata per lo più l’arte della composizione del giardino. Ma sappiamo anche che i monaci hanno contribuito appunto alla diffusione sia delle dottrine e dei precetti di ordine religioso ed etico, sia all’insegnamento di pratiche marziali provenienti dal vicino continente asiatico, che avevano lo scopo di  mantenere in buono stato la salute e  la tonicità del corpo. Di questa originaria funzione abbiamo testimonianza diretta anche da parte di Musashi: “In passato l’Arte della spada era considerata una delle Dieci Abilità ed era annoverata tra le Sette Arti come pratica salutare. Era certamente un’arte, ma come pratica salutare, non si limitava all’esercizio di una tecnica[19].
 Riteniamo che ci sia un evidente nesso tra l’arte del giardino e quella del mantenimento in buona salute del corpo, in quanto il giardino è, per gli orientali, un’ulteriore espansione del proprio corpo e la sua cura in stretta analogia con quella dell’uomo. Sotto questo aspetto è interessante notare che il giardino giapponese molto raramente è chiuso da alte mura, come invece lo è stato quello occidentale almeno fino al ‘700, quasi a sottolineare la continuità tra esterno ed interno, tra uomo e natura. Nell’uno e nell’altro caso vi sono canali preferenziali in cui scorre l’energia, il ki, che è essenziale conoscere e su cui bisogna lavorare per ri-equilibrare le diverse tensioni e per ristabilire una certa armonia. Detto questo ci sembra opportuno osservare che anche lo studio dell’arte tradizionale  del combattimento, così come si è detto per la calligrafia, la pittura e l’arte del giardino, ha tratto molti dei  suoi insegnamenti da principi taoisti. I maestri  cinesi, infatti,  prendevano a modello gli immortali, e dunque avevano a cuore l’aspetto della longevità, oltre a quelli più comuni e conosciuti della destrezza nell’uso di armi e della strategia. In particolare ci riferiamo proprio al principio di reciprocità e di analogia tra universo (macrocosmo) e corpo umano (microcosmo). Nel campo delle arti marziali cinesi abbiamo riferimenti molto antichi a questo riguardo: risalgono  alla seconda metà del XIII secolo, epoca in cui visse il fondatore del Tai- Chi-Chuan[20], Chan San-Feng[21]. Egli aggiunse allo Sao-Lin-chuan[22], la teoria dell’I-Chig e la pratica del Chi Kung, per un tipo di pratica che “trascende l’arte marziale e include volontà, mente, corpo e natura nella visione della pratica del Tao, o via della natura. [...] Quando Chang San- Feng vide i monaci praticare la boxe sulla montagna Wu Tang, pensò che essi usassero troppa forza esterna e che quindi perdessero facilmente l’equilibrio. Se Yin e Yang erano bilanciati nel corpo, si poteva essere meno goffi. Di conseguenza egli usò i principi del Tao della natura, il diagramma Tai-Chi e l’I Ching per sviluppare il Tai-Chi-Chuan. Lo scopo dei movimenti del Tai-Chi è quello di trasferire il Chi, o energia intrinseca, allo Shen, o spirito, e di usare la forza interiore piuttosto che quella esteriore[23]. Tra le tante leggende che raccontano le gesta di questo personaggio, divenute nel tempo un amalgama di storia e mito, come quelle ad esempio che lo vedono passeggiare sulla neve senza lasciare impronte, uccidere pitoni a mani nude, sollevare massi di dimensioni e peso elevatissimi esercitando una forza sovrannaturale, afferrare frecce con i denti, ecc., ne riportiamo per  esteso una a nostro avviso particolarmente significativa: “E’ detto che Chang San- Feng avesse,  cinque principali passatempi: 1) danzare con la spada al chiaro di luna [per richiamare energia], 2) praticare il Tai-Chi-Chuan nelle notti buie [per apportare vigore], 3) scalare le montagne nelle notti ventose [per allungare il respiro], 4)leggere i classici nelle notti di pioggia [per pulire la mente], 5) meditare a mezzanotte [per illuminare la propria natura][24]. Queste storie concorrono a dimostrare come il vecchio maestro avesse raggiunto una perfetta armonia fra corpo, spirito e le forze dell’universo. L’aspetto del mantenimento di buona salute e  di  longevità presente nel Tai-Chi-Chuan comporta, non solo lo studio del costante trasformarsi dello Yin in Yang e viceversa, ma anche un’applicazione della teoria dei cinque elementi, considerati principi dinamici, che incessantemente si producono e si distruggono tra loro, si attirano e si respingono reciprocamente secondo comportamenti dettati dalle qualità intrinseche di ognuno e individuati da un’attenta osservazione e una profonda conoscenza dei fatti della natura. La teoria Wu-Shing, o dei cinque elementi, terra, fuoco, legno, acqua, metallo,  ha più di duemila anni ed è considerata dal taoismo alla base della comprensione delle leggi  che regolano l’universo. La sua applicazione in campo marziale trova riscontro anche nei più semplici movimenti: “…Vediamo infatti che come un  passo in avanti è associato al metallo, una ritirata al legno, guardare a sinistra all’acqua, a destra al fuoco e l’equilibrio centrale è associato alla terra. Quindi oltre a favorire una salutare relazione Yin Yang fra l’attività mentale e il corpo fisico, il Tai-Chi-Chuan è destinato a bilanciare gli organi interni e a promuovere l’armonia nel corpo intero[25].
Ma la buona forma fisica per quanto necessaria, non è, come abbiamo visto, il solo scopo del guerriero che, ad un certo livello, deve riuscire appunto a trasferire tutta l’energia accumulata dal corpo, allo  Shen, lo spirito. Sono molti i maestri leggendari di spada e di altre arti marziali, che hanno scritto le loro riflessioni, racchiuse oggi in preziosi trattati, giungendo sempre alla medesima conclusione, ovvero che il fine di queste arti non è l’accrescimento della forza fisica per sopraffare il prossimo, né l’acquisizione di quelli che vengono chiamati “superpoteri”, che semmai saranno la naturale conseguenza del raggiungimento di qualcosa di ben più difficile e temerario: conoscere se stessi, essere in armonia con l’universo, raggiungere l’illuminazione, poiché “La vera vittoria è la vittoria su se stessi”.
Imitare il modo di operare della natura  significa scoprire i suoi e i propri segreti : “La Via di Heiho è la Via della natura. Conoscere il segreto della natura significa essere in armonia con il ritmo degli eventi: quando saprete apprezzare questa realtà, sarete in grado di battervi naturalmente e di sconfiggere senza sforzo qualunque avversario. Questa è la Via del Vuoto: in questo libro vi spiegherò come seguire la giusta Via in armonia con la natura[26].
Nei metodi e nelle tecniche di apprendimento delle diverse arti marziali, si riscontra frequentissimo l’uso di metafore che si riferiscono al mondo della natura e a quello del giardino.
Ad esempio, com’è ovvio da quanto abbiamo fin’ora detto, l’apprendista comincia il lavoro “dall’esterno”, forgiando il corpo, come un terreno da vangare per poterlo rendere fertile. Dovrà farsi morbido e forte al tempo stesso: se è troppo rigido il corpo si spezzerà, come un ramo secco, ma se rimane agile ed elastico, ma non molle, potrà  trasmettere una forza invincibile.
Lo studio delle arti marziali passa poi, necessariamente, dall’esercizio del corpo a quello della respirazione. La respirazione ritmata e profonda calma l’agitazione mentale e rigenera il fisico come la linfa nutre la pianta. I saggi taoisti e i maestri orientali dicono del Vero uomo che egli “respira attraverso i piedi”, proprio come un albero trae nutrimento e stabilità dalle proprie radici[27].  “Osservate come si incurvano alcuni anziani: essi prendono energia solo dal cielo; ma per rimanere giovani, occorre fare come naturalmente fanno i bambini molto piccoli e le piante: trarre la forza dalla terra e, rilassando il corpo, farla scorrere fino al sorriso” [28].
 La respirazione nelle arti marziali non è intesa solamente come scambio biochimico di ossigeno e anidride carbonica; essa  è anche vibrazione leggera e raffinata con la quale si pulisce la propria anima a cominciare dagli organi di senso. Questa ‘pulizia’ spesso accompagnata da diversi tipi di pratiche di purificazione[29], è funzionale  all’acquisizione del cosiddetto sesto senso, di importanza vitale per il bushi; la vita e la morte dipendono infatti dalla sua capacità percettiva del pericolo e dalla sua abilità nell’evitare le situazioni critiche, di vincere ancora prima di combattere.
A questo scopo Takuan Sōhō, nel suo Fudōchishinmyōroku,  pone l’accento sulla necessità di forgiare la propria mente in modo che  non abbia più ‘luoghi di stallo’, ovvero di  attaccamento. Questa condizione permette di reagire con  immediatezza ed efficacia: “La mente dell’attaccamento sorge dalla mente che si ferma. […] Il fermarsi diventa legame con vita e morte. Se si guardano i fiori di ciliegio o le foglie d’autunno, è importante che la mente si abitui a non fermarsi con essi. Una poesia di Jien dice:

Il fiore che emana il suo profumo
davanti alla mia porta di legno
lo fa con indifferenza.
Io, tuttavia, mi siedo e lo osservo.
Com’è pietoso questo mondo.

Questo significa che è la Non-Mente a permettere al fiore di liberare il suo profumo, mentre lo guardo, ma la mia mente questo non lo coglie. Che rincrescimento nel realizzare che la nostra mente possa renderci così cristallizzati![30].
Su questo rifletteva forse Yagyu Munenori, il destinatario del testo  sopra riportato,  mentre, assorto nella contemplazione dei ciliegi in fiore di un giardino, gli capitò di avvertire la volontà di un aggressione contro di lui (sakki).  Ma in quel giardino erano presenti solo lui e il suo fedele servitore, al quale allora disse: “Poco fa, mentre guardavo i ciliegi ho sentito il sakki. Mi sono guardato intorno, ma non c’era nessuno che mi potesse essere ostile. […] Allora il servitore che portava la sciabola si scusò: ‘A dire il vero prima, nel guardarvi, mi è venuto da pensare che in quell’istante avrei potuto uccidervi con la sciabola’. Allora Munenori fu soddisfatto e disse: ‘Bene. Ho capito[31].
Il sesto senso è dunque raggiungibile con l’affinamento delle proprie qualità percettive, che, insegnano i grandi maestri del bushidō, nell’uomo Vero sono illimitate.
 Morihei Ueshiba (1883-1969), il fondatore dell’aikidō, raccontò di come riusciva ad evitare gli attacchi che gli venivano sferrati, fossero questi provenienti da uno o da molti avversari anche più giovani e aitanti di lui: “Appena prima dei suoi attacchi vedo un raggio di luce davanti agli occhi che mi rivela la direzione in cui intende attaccare[32].  “Ogni tre giorni Morihei annunciava: ‘Stanotte si pratica’. I discepoli non potevano distinguere nulla nel buio della notte, ma Morihei urlava loro: ‘ Attenti alla roccia alla vostra sinistra’, e ‘Attenti ai rami sopra di voi’. Li armava di spade di legno e ordinava di attaccarlo. All’inizio nessuno aveva la minima idea di dove fosse […]. Quindi Morihei rovesciava il gioco: lui li seguiva, portando la lama affilata come un rasoio a un pelo dalla loro testa (molti guerrieri erano dediti a pratiche ascetiche nei secoli precedenti, e sceglievano il monte Kurama perché si diceva che la divinità tengu che vi dimorava fosse un esperto di scienza militare)[33]
La totale padronanza dello spazio circostante, tramite una profonda conoscenza dell’alternanza del ritmo degli oggetti della natura e del vuoto è alla base  dei principi dell’arte della composizione del  giardino come di quelli dell’autodifesa: in un caso infatti, si mira alla realizzazione di un luogo in cui ogni singola pianta, albero, pietra si accosti e si sposi all’altra in funzione di un’ unità armonica che perdurerà nonostante il continuo mutare del loro aspetto esteriore, nelle forme, nel volume e nei colori, che si modificano incessantemente insieme alle stagioni. Nell’altro, allo stesso modo, si estende il campo delle proprie percezioni fino a divenire tutt’uno con l’ambiente in cui ci si trova per non dare più adito alla minima inaspettata intrusione: non dovrà essere lasciata la più piccola apertura, alcuno spazio vuoto, nessuna possibilità d’attacco al potenziale nemico: se infatti si fosse sorpresi alle spalle o inaspettatamente  sarebbe inevitabile lo scontro e probabilmente la sconfitta. Così viene detto che è necessario “sentire con gli occhi e vedere con le orecchie”.
Il maestro di aikidō Hiroshi Tada[34], sostiene che il senso del tatto si deve estendere oltre la superficie corporea della pelle; dapprima per un intervallo spaziale  più limitato poi, con l’allenamento e l’esperienza, sempre più ampio. Lo sguardo, metsukè, ha in tutto questo un ruolo determinante in quanto partecipa a questo sentire, esso è infatti di notevole supporto al senso dell’equilibrio, lo si potrebbe quasi definire uno sguardo ‘prensile’. Ma gli occhi, che nelle tradizioni più diverse sono considerati gli organi della luce e in analogia con gli astri, anche nell’applicazione delle arti marziali hanno in realtà tra loro funzioni complementari: “…Anche nel caso di una polarità del tutto parziale ed esteriore come la simmetria naturale, le parti non sono assolutamente equivalenti: così, l’occhio destro è attivo e ‘penetrante’ e l’occhio sinistro passivo e ‘ricettivo’[35].  

E’ questo il motivo per cui i maestri insegnano che trovandosi faccia a faccia con un temibile avversario è preferibile guardarlo focalizzando  un punto in mezzo ai due occhi, oppure il solo occhio sinistro e solo raramente entrambi gli occhi. Ma superata la fase iniziale di studio reciproco, nel caso ad esempio dell’applicazione di una tecnica di aikidō, proprio perché in quest’arte si ricerca l’unione con il proprio avversario e non il contrasto [36],  lo sguardo di chi riceve si volge nella stessa direzione di quello dell’attaccante, per poi fermarsi altrove: esso allora diviene l’’ancora’ che stabilizza il movimento nella fase del Kimè, ovvero l’apice in forza e perfezione del movimento[37]. Come se fosse la retta generatrice di un cono, in cui l’altezza è data dalla statura dell’uomo, lo sguardo dapprima si mantiene in un perimetro circolare più ristretto per meglio controllare l’equilibrio in movimento, ma poi, con l’esperienza, si allargherà fino a perdersi all’orizzonte, divenendo specchio che tutto vede, sente e riflette. Questo spazio, così delimitato all’inizio ed esteso all’infinito poi, è spesso simbolicamente descritto come il proprio giardino, contemporaneamente interno ed esterno al proprio cuore-mente. Al centro del giardino si ritrova se stessi, la quiete e la concentrazione; dal cuore  alla sua periferia   tutto è registrato dall’attenzione vigile: ogni uccello che oltrepassa la siepe  è avvertito, ogni foglia che leggera si stacca dal ramo e tocca terra è percepita. Qui nulla sfugge al guerriero che veglia contemporaneamente sul proprio cuore e sulla sua dimora, la terra.
 Ad un certo punto della sua vita “…Morihei andò in giardino a prendere acqua dal pozzo per lavarsi le mani e la faccia dal sudore. Improvvisamente cominciò a tremare e si sentì immobilizzare. La terra sotto i suoi piedi prese a scuotersi e si trovò immerso in raggi di pura luce che scendevano dal cielo. Circondato da una nebbia dorata, sentì svanire ogni meschina presunzione e assunse la forma di un Essere Dorato. Morihei percepì l’intimo funzionamento cosmico e quindi comprese: “ Io sono l’Universo”[38].







[1] Prof. Shimazu, citato da Rinaldo Massi, Kami to eiyū, in Inazō Nitore, Bushidō, ed. Sannō-kai, Padova 1991, p. 18.
[2] Ibidem, p. 18.
[3] Letteralmente l’ideogramma di bu è composto dal segno dell’alabarda e da quello di tomaru che significa dominare, mentre shi, a forma di piccola croce, vuol dire uomo, e ‘via’, ‘strada’.
[4] Fosco Maraini, Ore giapponesi, Oglio editore, Milano 1988, p. 351, Prima di questo termine, nato secondo alcuni soltanto agli inizi del ‘900, nell’epoca Kamakura, si utilizzava  ‘kyūba no michi’, ‘la via dell’arco e del cavallo’.
[5] Cfr. M. A. Rossi, Samurai, uomini di spada e di penna, in Samurai, scritti di guerrieri giapponesi, Luni, Milano 2004.
[6] Il ruolo sociale del Samurai si delinea con relativa chiarezza  nell’era Kamakura (1185-1336), periodo  in cui nasce il feudalesimo e si diffonde lo zen, introdotto dalla Cina nel periodo Asuka (552-710). Il guerriero apparteneva alla casta più elevata delle quattro che dal periodo Edo hanno suddiviso l’intera società del Giappone feudale, "shi-no-ko-sho", l'ordine delle caste: shi = guerrieri, no = agricoltori, ko = artigiani, sho = mercanti. 
[7] Rinaldo Massi, Bushidō no kokoro, in Inazō Nitore, Bushidō, op. cit., p. 11.
[8] Anche il saggio cinese Chuang-tzu spiega infatti questo punto chiaramente: “Un piccolo smarrimento modifica l’orientamento dell’uomo. Un grande smarrimento modifica la sua natura. […] Di colui che forza la propria natura allo studio dei cinque toni, io non dirò che ha l’udito fino, fosse anche un musicista come Shi-kuang. Così di colui che forza la propria natura per discernere i cinque colori, io non dirò che ha la vista acuta, fosse pure chiaroveggente come Li-zhu. L’eccellenza non risiede nella bontà o nella giustizia, ma nelle qualità intrinseche di ciascuno di noi. Eccellente è chi conta soltanto sulla propria natura originaria e sulle proprie disposizioni innate. Così l’uomo dall’udito fine non sente l’altro, ma se stesso, l’uomo chiaroveggente non vede l’altro ma se stesso. Colui che non vede se stesso ma vede l’altro, che non comprende se stesso ma comprende l’altro, possiede le qualità di un altro e perde le proprie. Così,  egli realizza l’ideale di un altro e abbandona il proprio” cfr. Zhuang-zi, a cura di Liou Kia-hway, Adelphi, Milano, 1993.
[9] Fosco Maraini, op. cit., p. 349.
[10] Fosco Maraini, op. cit., p. 353.
[11] E’ il caso del duplice attacco da parte dei mongoli e dei cinesi di Kublai Khan, nel 1274 e nel 1281.
[12] Fosco Maraini, op. cit., p. 349.
[13] Il misterioso “Credo dei samurai” recita anche : “Io non ho genitori, il cielo e la terra sono i miei genitori; […] Io non ho nemici, l’imprudenza è il mio nemico”. Cfr. Rinaldo Massi, op. cit., p. 28.
[14] Kenji Tokitsu, Lo zen e la via del karate, Sugarco edizioni, Varese 1979.
[15] Il termine spesso adoperato per esprimere questo rapporto d’equilibrio è bun-bu: “ Si dice che quella del guerriero sia la doppia via del pennello e della spada” da M. Musashi, Go rin no sho, Demetra, Verona 1995,  p. 15.
[16] G. Soulié de Morant, La storia dei 47 Ronin, Luni, Milano 2005, pp. 29-30.
[17] Kenji Tokitsu, op.cit., p. 39.
[18] D.T. Suzuki, Essai sur le boddhisme zen, Paris, Albin Michel in K. Tokitsu, Lo zen…, op. cit., p.137.
[19] Miyamoto Musashi, Il libro dei cinque anelli,  Demetra,  Verona 1995, p.16.
[20] Anche se in realtà è noto che vi fossero delle pratiche antecedenti all’esistenza storica di Chan San-Feng, in epoca Tang (618-905 d.C.). Cfr. Jou Tsung Hwa, Il Tao del Tai-Chi Chuan, Ubaldini, Roma 1986.
[21] Chan San-Feng nacque il 9 aprile del 1247, ancora oggi questa data viene celebrata con feste e dimostrazioni pubbliche di Tai-Chi-Cuan. La leggenda vuole che appena nato avesse già con un aspetto da saggio: la schiena arcuata della tartaruga e la figura della gru. Jou Tsung Hwa, op.cit., p.14.
[22]Il shao-Lin-Chuan è un esercizio creato nel famoso tempio buddista di Shao-Lin, situato in una provincia a nord della Cina: Ho Nan. Il tempio fu costruito nelle montagne Shiao-Shi durante la dinastia Wei nel III sec. d.C. Mo, il maestro indiano Bodhidarma che venne in Cina nel 527 d.C. insegnò lì per molti anni durante la dinastia Liang (VI sec. d.C.. Notando che molti monaci erano deboli,  malaticci, e che spesso si addormentavano durante la meditazione e i sermoni, Ta-Mo indicò l’importanza di avere un corpo sano per poter sviluppare un forte spirito interiore”. Jou Tsung Hwa, op. cit., p.14.
[23] Jou Tsung Hwa, op. cit., p.16.
[24] Jou Tsung Hwa, op. cit., p.17.
[25] Jou Tsung Hwa, op. cit., p.43.
[26] M.Musashi, Il libro dei cinque anelli, (Go rin no sho), op. cit.,  p.23.
[27] Nelle posizioni del tai-chi-chuan, i maestri cinesi spiegano chiaramente: il piede destro si radica in senso orario, il sinistro in senso antiorario; nessuna efficacia può avere un attacco se non vi è la ‘radice’ ben fissata, da cui, sola, può nascere la spinta. Questa si sviluppa in senso ascendente e spiraliforme, avvolgendo le membra fino a scaturire, potenziata,  dalle estremità opposte (le braccia e l’altra gamba) determinando l’alternarsi costante dello yin e dello yang.
[28] Appunti dal M° Noro, di origine giapponese, attualmente vive a Parigi dove ha fondato il Ki no michi,  ‘via del ki’.
[29] Cfr. cap.1 di questo libro, p….
[30] Takuan Sōhō, Sogni, Scritti di un Maestro Zen a un Maestro di Spada, Luni, Milano 1995, p.45.
[31] Kenji Tokitsu, op. cit., p.119.
[32] John Stevens, Ueshiba, Luni, Milano 1997, p.41.
[33] Ibidem, p.91.
[34] Responsabile didattico dell’Aikikai d’Italia, allievo diretto del grande maestro Moriei Ueshiba,  il m° Tada, 9° dan di aikidō vive attualmente a Tokyo.
[35] Frithjof Schuon, Images de l’Esprit, Shinto-Bouddhisme-Yoga, Paris, Flammarion, 1961, p.23, n.1,. “Se nel mito giapponese è l’occhio sinistro, contro ogni attesa, che dà nascita al Sole è perché il Sole è considerato qui – come del resto nelle lingue germaniche – sotto l’aspetto della femminilità, di cui rappresenterà allora non il lato passivo e frammentario, ma al contrario il lato attivo e materno: il Sole ha la fecondità, è attivo in quanto ‘crea’ i  figli, mentre la luna – il maschio visto nella prospettiva del matriarcato – è ‘sterile’  nel senso che essa ignora la maternità, che sola è un ‘irraggiamento’; Il maschio lunare decresce nella sua infruttuosa solitudine, e non ottiene la sua pienezza che grazie alla donna, che donandogli la gioia gli conferisce una sorta di ‘vivificante luce’. Ibidem, p.61  Ci pare interessante notare anche che il legame tra la luce e gli occhi, che in questo caso sono il sole e la luna accoppiati, trova riscontro nei rispettivi ideogrammi: il sole e la luna, infatti, se posti l’uno a fianco  dell’altro, danno origine ad un terzo ideogramma che significa ‘luminosità’, ovvero “l’intero processo della luce, la radiazione, la ricezione ed il riflesso della luce”. Cfr. Ezra Pound, Opere scelte, Mondadori, Milano 1970, p.431.
[36] Aikido significa appunto Ai: armonia, unione; Ki: energia; : via
[37] Kenji Tokitsu, op. cit., p.64.
[38] Ibidem, p. 41.

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